IL GRANCHIO DI DUCASSE
I “Canti di Maldoror” di Isidore Ducasse, meglio noto come il Comte de Lautréamont, rappresentano un’opera letteraria audace e provocatoria, pubblicata nel 1869. Questo capolavoro della letteratura trasgressiva è diviso in sei canti, ognuno dei quali offre una visione unica e contorta dell’esistenza umana.
Il protagonista dei “Canti di Maldoror” è Maldoror stesso, una figura oscura e enigmatica che incarna la ribellione e il nichilismo. Attraverso la sua narrazione, Lautréamont ci conduce in un mondo sospeso tra realtà e sogno, popolato da immagini macabre, riflessioni filosofiche profonde e una cupa bellezza. La prosa frenetica e visionaria dell’autore ci trascina in un vortice di emozioni contrastanti, spingendoci ad esplorare gli abissi più oscuri della mente umana.
CHI ERA L’AUTORE?
Per comprendere appieno l’opera, è importante gettare uno sguardo sulla vita tormentata e misteriosa dell’autore, Isidore Ducasse. Nato nel 1846 a Montevideo, in Uruguay, Ducasse condusse una vita relativamente oscura e poco documentata. Di famiglia aristocratica, si trasferì in Francia per studiare, ma la sua breve vita si concluse prematuramente nel 1870, all’età di soli ventiquattro anni.
Nonostante la sua vita sia avvolta nel mistero, il lascito di Lautréamont con i “Canti di Maldoror” rimane un pilastro della letteratura del XIX secolo. La sua opera sfida le convenzioni sociali e morali del suo tempo, invitando i lettori a esplorare le loro paure più profonde e le loro contraddizioni interiori.
Qualche tempo fa mi ripromisi di pensare ai canti di Maldoror come a qualcosa di teatrabile e scrissi queste righe che seguono…
Alcune considerazioni sui ”Canti di Maldoror” a teatro
di Claudia Cravero
È innegabile che I Canti dl Maldoror siano un’opera complessa, variamente interpretabile, a tratti incomprensibile. Ecco perché le letture che ne sono state date spaziano daIl’indagine letteraria a quella psicoanalitica, per cercarmi tracce di un autore che ancora oggi ci è pressoché ignoto.
Di Ducasse – Lautreamont (1846 – 1870) si sa pochissimo, e quel poco Io si deduce per Io più dai suoi scritti poetici: le ombre del suicidio aleggiano sia su di lui (che muore a soli 24 anni nella sua casa di Faubourg – Montmartre), sia sulla famiglia (il decesso della madre avvenne anch’esso in circostanze misteriose). Forse proprio dai misteri della sua biografia scaturisce la difficoltà di inquadrare la voce dissonante di questo giovane maledetto, che da un lato ripercorre la strada di molti suoi coetanei europei in crisi con la società e il mondo, facendo di essi i suoi padri ispiratori; ma dall’altro c’è del nuovo in lui, c’è una ricerca letteraria e una conoscenza che lasciano intravedere una qualche strategia narrativo, e non solo le follie di un pazzo, come da molti è stato definito.
Certo che, dati questi presupposti, è complicato in ogni caso individuare un filo conduttore nel tentativo di realizzare dei Canti una trasposizione teatrale. Ducasse vive la crisi del suo tempo e l’”oscuramento della figura dell’artista romantico”; Io vive da giovane qual è, genio immaturo forse, intriso di letture spasmodiche e di creatività dilagante, quasi ormonale direi. Mina ogni certezza, adopera ogni dubbio, lo instilla, lo tesse tra centinaia di metafore fortissime, immagini anche spietate e immonde. Ma non solo con il gusto di disorientare. C’è arte dietro a tutto ciò, e Io si comprende, secondo me, analizzando le linee programmatiche dell’esordio: l“’amaro frutto“ che il suo lettore non deve leggere è tutto lì, e l’autore sa bene che sarà Ietto. Egli sta creando un percorso per un viaggio che potrebbe essere simile a quello dantesco, ma che non ne ha la chiarezza, la figurazione, la motivazione precisa. È un viaggio allucinato perché così vuole l’autore; un viaggio che non deve portare da nessuna parte, né morale né amorale, solo alla conoscenza del male, dell’amaro, del paradossale. La sua è un’escatologia del dolore dell’anima.
Dal punto di vista narrativo Jacomuzzi osserva come “il testo abbia predisposizione ad una rottura della comunicazione, con decostruzione di un linguaggio sottratto ad una normatività espressiva e che allontana un approccio che voglia ricostruirne il significato“. Egli decostruisce dunque e riscrive e parodia addirittura i testi romantici, dal feuilleton al romanzo noir, con ricorso al fantastico, al sogno, al visionario. I suoi autori e le sue opere di riferimento sono moltissimi, tra cui Byron, Flaubert, Hugo, Baudelaire, Musset, Sue, Poe, Dante, Omero, l’Apocalisse.
Come portare tutto questo a teatro? Per cercare una linea di lavoro ho consultato
due testi, uno recente a cura dl Filippo Dimiani (Goston Bachelard. Lautreamont, Jaka Book, 2009), l’altro del 1987, di Ulisse Jacomuzzi (Verità e retorica in Lautreamont, Editions Slatkine). Dall’analisi comparata dei due ho tentato di estrapolare alcuni temi su cui si può lavorare per comporre un lavoro teatralmente completo, fermo restando che sia necessario un intervento narrativo esterno che fornisca allo spettatore alcune travi d’appoggio logico, vista I impossibilità di godere del testo in rilettura prolungata e meditata.
Bachelard pone l’accento su tre snodi dell’opera:
- L’eccesso del voler vivere;
- La ribellione a Dio;
- La perversione umana in forme anche fantastiche.
Ciò che maggiormente colpisce dell’opera di Ducasse è I’ANIMALITA’, per cui, dice sempre Bachelard, “l’uomo è una totalità animale, un sur-animale che ha tutta l’animalità a sua disposizione e la smentisce, la trapassa per vivere la vita nella profondità umana”. L’uomo di Ducasse non vuole solo ribellarsi dando voce alI’animaIe che è in lui, ma fa deIl’animalità una forma di esistenza, di protesta, con le sue regole, la sua coscienza. Non è un primitivo rozzo, è un uomo razionale che usa la sua ferinità come arma e linguaggio.
All’interno di questa animalità emerge il tema della METAMORFOSI “immediata, urgente, che si compie attraverso atti discontinui, giochi immaginari che disegnano piani surreali”. Mentre la metamorfosi di Kafka è catatonica, nera, rallentata, è “la noia degli organi”, in Lautreamont essa introduce forti e veloci atti di volontà, è urgente. È un desiderio forte che il protagonista ha di trasformarsi in un animale per adempiere al suo desiderio, il tutto con forte AGGRESSIVITÀ. Nessun ostacolo lo fa vacillare: in essa l’uomo non digerisce ma morde.
“Una favola inumana che rivive negli impulsi brutali, forti nel cuore degli uomini”. Ecco perché Lautreamont cita ben 185 animali, con 435 riferimenti alla vita animale. E queste forme non sono riprodotte, ma “prodotte”, in una poesia sempre viva e ardente. La sua è una poesia in effetti poco visiva, fatti salvi alcuni episodi su cui la lettura si stabilizza e in cui è possibile materializzare un‘immagine compiuta. Siamo sempre in presenza di una poesia delI’ECCITAZIONE, dello “stimolo muscolare”.
Si tratta dunque di un viaggio attraverso un regno animale fantastico e chimerico. Tra le specie dominano l’artiglio e la ventosa (la seconda procura godimenti più prolungati, mentre il primo è il simbolo della pura volontà). L’artiglio è il “principio della crudeltà giovanile, la coscienza elementare della volontà”. Mi ha colpito il fatto che Ducasse sia rimasto per anni rinchiuso in una scuola sui Pirenei, come isolato dal mondo: i suoi docenti forse erano per lui aguzzini, la sua animalità era rinchiusa e soffocata e così si è espressa (frequenti sono infatti i riferimenti alla “classe”).
L’animale privilegiato è il GRANCHIO, o meglio il GRANCHIO PORRO, che perde la chela piuttosto che lasciare la preda. Ma è anche interessante il riferimento al pidocchio, piccolo essere robusto e letale, o al polpo, le cui ventose succhiano la vita.
Nella ribellione non manca Il GRIDO, simbolo del primitivo nervoso. Ma quello ci Ducasse non è un grido che chiama. ma un grido che esulta: IL GRIDO È ENERGIA. Il grido è la prima voce del neonato, la prima voce della provocazione; i fantasmi dl Ducasse nascono tutti da un urlo che è Io stesso che raddrizza chi vacilla. L’urlo deve “portare l’odio fino al cuore dell’avversario, come una freccia”.
La violenza è diretta contro tutto e contro tutti, ma due sono i bersagli che maggiormente L. fa suoi e che spiazzano chi legge: il BAMBINO e DIO. Il bambino, da sempre, è l’inerme per eccellenza, il mito della purezza, della vitalità incontaminata; egli può suscitare istinto di protezione ma anche insano desiderio di violenza, fisica e morale. Il bambino è il primo gradino verso il nemico più grande che è Il Dio creatore, buono e terribile, incurante.
lo credo che i Canti a teatro possano essere una strada difficile, inesplorata ma interessante. La voce dell’autore che dice “Sono sporco!” è la voce dell’uomo incompreso di oggi, dell’artista messo da parte, dell’uomo morale e diverso irriso e allontanato. Una creatura che condanna in modo irriverente, spietato, senza regole è necessaria ancora oggi. Le immagini possono essere ricostruite con una patina di modernità, di rivisitazione che può diventare un messaggio importante per l’uditorio moderno.
Credo si debba lavorare con i gesti, la voce, alcuni simboli. Anche se il testo non è visivo, a teatro potrebbe diventarlo, anzi “dovrebbe”, per essere assimilato. Si prenda una voce, la si trasformi in grido e le si metta un artiglio: questo è il Lautreamont di oggi.
Jacomuzzi Ulisse, Verità e retorica In Lautreamont, Editions Slatkine, 1987 Bachelard Gaston, Lautreomont, a cura di Filippo Fimiani, Jaca Book, 2009
Lautreamont, I canti di Maldoror, BUR, 2010
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